L’ippopotamo e la Stufa. Storiella per l’arrivo del freddo.
Nello zoo più grande d’Europa c’era un ippopotamo bello tondo e un giorno si innamorò. Ma andiamo per ordine: successe che arrivò l’inverno d’improvviso e spalancò senza bussare anche il portone dello zoo, da un giorno all’altro, portandovi dentro un vento gelato da far tremare i baffi. Mentre custodi e avventori non fecero altro che coprirsi più di prima – con sciarponi e doppio calzino- i poveri animali rimasero come al solito più nudi che mai. Ora, solitamente gli animali se la cavano nell’adattarsi alle temperature: i leoni cominciarono a rincorrersi per non farsi intirizzire da quel troppo ghiaccio abbraccio, i serpenti andarono a recuperare le mute degli anni precedenti e in esse si avvoltolarono, le giraffe si impegnarono nel cucire adeguati maglioncini a collo alto che però vennero ultimati solo nell’estate di un lustro dopo. Rimase solo il nostro ippopotamo, pigro più che mai, a non sapere come fare a ripararsi da quel freddo così improvviso. In realtà qualche idea gli era anche venuta, ma si era persa nell’adipe e mai avrebbe raggiunto la destinazione fattiva. Così se ne stava lì il nostro amico Ippopotamo, con l’occhio socchiuso di chi vorrebbe addormentarsi ma non è abbastanza comodo, e al tempo stesso di chi potrebbe accomodarsi ma non ha dormito abbastanza per muoversi.
Un bel giorno passò da lì un giovane albatros, libero ma evidentemente affannato. Spiegò di aver perso il proprio fratello in mare, ucciso da un marinaio con una balestra. Aveva un occhio glittering, quell’albatross, e davvero il suo racconto era molto interessante. Spiegò inoltre di essersi perso nel fuggire con la paura di essere arrostito da quello stesso o altri marinai, e così di essersi perso nella grande Europa in cerca di un non meglio definitivo rifugio. In quel folle girovagare vagabondo, l’amico uccello aveva però visto tetti e giardini, alberi i più diversi e uomini e donne e bambini belli e bambini brutti, palloni volare e perdersi e terre coltivate, pozzi dispersi e panchine rotte o colorate, era entrato per sbaglio in centri commerciali e botteghe d’artigiani d’ogni tipo, aveva mangiato pagine di quotidiani e vermi più grossi e più piccoli, patatine avanzate e pezzi di vetro, così duri a entrare quanto, ahimè, a uscire. Aveva insomma conosciuto il mondo, così duro sia in entrata che in uscita. Vedendo l’ippopotamo così infreddolito e sfinito, gli venne in mente di regalargli una bella idea (non prima di averlo scaldato con otto giorni di racconti e alito pesante): l’idea della stufa. Gli spiegò di questo oggetto misterioso che aveva trovato entrando per errore in un supermercato, poco prima di dirigersi a capofitto verso il reparto forno. Gli spiegò di questa scatola che emanava calore infinito, continuamente. Gli spiegò di un oggetto che aveva un unico scopo – scaldare – e non faticava per compierlo. Gli spiegò che avrebbe provato a portargliene una, come regalo in simpatia per la pazienza dimostrata nell’ascoltarlo (in realtà per i primi sei giorni e mezzo di nenia l’ippopotamo aveva sonoramente ronfato). Successe che l’albatros sparì a cercare una stufa e lasciò l’ippopotamo innamorato. Lo lasciò innamorato della Stufa, dell’idea che gli aveva regalato, di quell’oggetto dal calore continuo, così sicuro di sé, così bello. La immaginava splendida e, in quel momento, con le zampe intirizzite dalla temperatura glaciale, gli sembrò il desiderio più grande che mai avesse avuto. Anche solo il nome era comodo e morbido: Stufa. Stufa e ippopotamo: la bocca piena di gioia anche solo a pronunciarlo.
Nell’attesa, ippopotamo si scaldò. Mai aveva camminato tanto, percorse i venti metri quadrati del proprio recinto come un bimbetto gioiso, pensando a Stufa e al suo calore, col freddo che lo abbandonava disgustato da quella mielosa camminata dinoccolata e innamorata e distratta, andandosi a concentrare sulle scimmie proprio lì accanto. Per l’ippopotamo fu inizialmente un continuo immergersi nel proprio stagnetto artificiale di modo da esser sempre pronto, sempre pulito e sempre con il proprio capello – unico pelo presente sulla testa tra quelle piccole orecchie – tirato indietro con irresistibile stile ipporetrò. Del freddo, non più neanche l’ombra. Ma tardava l’albatros, passarono giorni e settimane. Arrivarono le prime nevi e l’ippopotamo se ne stava imperterrito in attesa ai bordi dello stagnetto ghiacciato, saltellando di gioia nel più assoluto calore: si sentiva già un po’ Stufa, conosceva adesso la sensazione del calore infinito. Eppure di Stufa, quella vera, neanche l’ombra. Milioni di persone e bambini passarono di fronte alla gabbia tentando di attirare l’attenzione dell’animale. Ma niente. L’ippopotamo era ormai del tutto concentrato sul proprio calore da dimostrare a Stufa di cui ormai non era forse neanche più innamorato, ma cui si sentiva così vicino. Fu triste rendersi conto che Stufa non sarebbe mai arrivata e che l’albatros niente altro era se non un impostore che gli aveva salvato la vita, cosa che spesso non basta a stimolare gratitudine. Così, mentre Stufa rimase per sempre indifferente al proprio scopo, l’ippopotamo ne cambiò molti, continuando ad emettere calore e sperando di poter specchiare un giorno ogni sua nuova forma nell’idea più bella e dolce del mondo. O, più semplicemente, continuando a vivere caldo caldo a margine dell’attesa.