A Macchia D’Odio #10
Una gabbia. Se solo tu potessi vederla.
Ho pensato a lungo fosse soltanto un sintomo della tua solitudine, poi ho capito che esistono malattie più profonde.
Non voglio più vederti, mi farà più male il sorriso della tua ombra che tu stessa. L’ombra, la mia, ti sotterra e rotola fra le nubi.
Lasciamo stare il passato, pensiamo al futuro: è meglio non conoscerci di nuovo.
Ma lo sai, sì, lo sai. Ho ingoiato ogni tuo desiderio.
Così, per vivere, non potrai allontanarti mai.
Non ti allontanerai mai, mai davvero.
Una gabbia bianca, la tua opera d’arte. La nostra.
In ferro battuto e vernice, della vernice si è perso l’odore e con esso la gioia nello stenderla, il colore di quel bianco inanimato ed esatto. Un’opera d’arte in mezzo a un giardino, un giardino in mezzo a una città, una città in mezzo ai miei occhi, tutto questo in mezzo alla mia esistenza, quando ancora è troppo presto per invocare e troppo tardi per imprecare.
Se solo tu potessi vederla e lasciarmi qui quel tuo germe, potrei costruire altre forme.
Una gabbia, dietro scorre un fiume di tutti, oltre a quello un altro campo che potrebbe essere un giardino, sopra potrebbero giocarci i nostri cani, i nostri figli.
I tuoi bozzetti sono chiusi in una cassapanca, ogni tanto li osservo, li studio, se sono ubriaco li concludo, li modifico e ci disegno sopra fino a che non sono più sicuro di riconoscere il tuo tratto e il mio. Gioia.
Mite, questa giornata si fionda tra i miei ricordi: ho finito, abbiamo finito e non si riconosce più il tuo tratto, non lo si discerne dal mio.
Faremo una mostra, userò il tuo cognome, la organizzeremo in quel fiume, lì dove ti ho affogata, e ognuno dovrà togliersi le scarpe e bagnarsi i piedi per poter vedere le nostre solitudini.